MANZONI: DAL BANCO ALLA CATTEDRA, UNA RISCOPERTA


Per tutti gli anni della scuola, da studentessa, Manzoni non l’ho capito un granché. Il suo romanzo mi sembrava un polpettone troppo infarcito e decisamente poco digeribile. Puo’ sembrare un’eresia, ma è la pura verità. Di sicuro non avevo gli strumenti e le capacità per apprezzare un capolavoro di scrittura come “I promessi sposi”, che, anche a distanza di secoli, resta moderno e parla ancora di noi, la generazione 2.0, pur raccontando una storia ambientata nel 1600. Che parli di noi me ne sono accorta tardi, negli anni in cui studiavo per diventare insegnante. L’ho riletto tutto d’un fiato, sotto l’ombrellone, restando stupita di trovare in quelle pagine tutto quello che non avevo saputo vedere da ragazza. Mi sono così ripromessa, se mai fossi riuscita a diventare un’insegnante, che avrei provato a trasmettere l’interesse per Manzoni e per la sua opera ai ragazzi delle medie (impresa non da poco!). Non sempre ci riesco alla perfezione, non con tutti i miei alunni di certo, ma quando vedo quegli occhi attenti all’ascolto, quando sento vociare “che bello oggi si legge Manzoni”, mi dico che sono sulla strada giusta.
In queste settimane stiamo leggendo in classe i primi capitoli, con brani scelti. I personaggi di don Abbondio, Renzo, Fra Cristoforo, Don Rodrigo, Gertude, hanno già conquistato molti dei miei piccoli lettori. Abbiamo imparato a conoscerli attraverso i gesti, i pensieri, le pause, i non detti, le parole. Abbiamo capito che Manzoni non spreca mai nemmeno la minima occasione di farli vivere, anche quando sembra che non accada nulla nella storia, perché proprio lì, nel prima e nel dopo dell’azione vera e propria, si nasconde la linfa dei personaggi. Così accade per l’attesa di Fra Cristoforo, ferma e decisa, prima d’essere accolto da Don Rodrigo. Quell’attesa ci dice tutto di lui, ancor prima che parli con il signorotto. Così come il flusso di pensieri di quest’ultimo, nell’atmosfera carica d’attesa di quell’incontro imminente, ce lo fa conoscere da dentro.
Ecco, quando si capisce che la grandezza del romanzo più celebre al mondo non sta tanto nelle scene che racconta, quanto nelle pieghe nascoste d’ogni pagina, che altro non sono che le pieghe dell’animo umano, allora lo si apprezza in pieno e può persino capitare d’amarlo, anche a tredici anni.
Come si fa a non sentire pulsare Gertrude, viva, tra le righe del testo? Mai figura femminile è stata presentata in modo così crudo nella sua verità, senza edulcorazioni. Sembra quasi nuda ai nostri occhi, senza filtri o maschere. Non è forse incredibilmente moderna? Non ci sono forse, ancora oggi, donne castrate, private della libertà di scelta, costrette a trasformarsi in quello che forse non sarebbero state, a fare i conti con i segni e le cicatrici profonde del loro animo? La sua civetteria piccante, il suo malcelato narcisismo, l’invidia sottile per la vita che palpita al di fuori delle mura del convento, la sua voglia di rivalsa su chi ha avuto una sorte diversa dalla sua, la scelta del male come riscatto per il suo dolore, sono così veri da lasciare il lettore sospeso nel giudizio e profondamente ammaliato dalla sua persona e dalla sua storia.